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Perchè scrivo romanzi (tratto da "Four Sides" - 2013)

 

Quando ero bambino costruivo il mio rifugio portatile attraverso i pensieri. Mi ero convinto che qualsiasi cosa fosse successa all’esterno – al di fuori di me – io avrei potuto sconfiggerla solo se avessi avuto un bel pensiero, continuo, incoraggiante, nella mia testa. Non sto parlando evidentemente di sentirsi un supereroe, non erano questi i miei pensieri. Sto parlando del mare, della spiaggia, di nuotare sott’acqua. Sto parlando della famiglia, di una partita di pallone, di una giornata trascorsa al parco con gli amici o di un gita con colazione al sacco: credevo che il pensiero costante di qualcosa di bello mi avrebbe salvato e per la verità io ci credo ancora. Per chi crede al trascorrere del tempo, gli anni passano, l’età avanza, le sfide si fanno sempre più complicate; ma se ci pensiamo bene i problemi e le difficoltà ci raggiungono sempre alla gradazione giusta. Ogni età presenta il proprio livello di difficoltà – potremmo replicare – ma io vorrei essere più preciso: ogni problema corrisponde al grado di responsabilità di chi lo riceve. A ogni uomo può arrivare soltanto il problema che gli corrisponde, perché quel problema – in realtà – gli è allineato. Il problema è il nostro avversario, l’antagonista: siamo noi che ce lo siamo messi davanti con un fine che spesso ignoriamo, ma che merita di essere rivelato. Il problema è lì perché ci chiede di essere superato. Il nostro avversario ci conferma quotidianamente la sua lotta perché ci vuole migliori, per permetterci di evolvere. E allora io – questa battaglia – mi sforzo di affrontarla con la migliore serenità e disponibilità di cui sono capace. Con la mano destra impugno la spada – certo – e nella sinistra ho uno scudo, ma dietro la spalla ho sempre un cilindro cavo di pelle, serrato alle spalle da corde sottili di cuoio: lì dentro non ci sono frecce, ma fiori freschi dallo stelo lungo e io mi riservo di offrirne sempre uno al mio avversario, al termine di una lotta leale. La scrittura è il mio scudo, mi protegge dalle difficoltà e dalle mortificazioni, dagli attacchi violenti del nemico, quando non sono stato sufficientemente prudente per anticipare le sue mosse. Dagli attacchi del mondo, per capirci. Quando ero bambino mi focalizzavo su un’immagine forte, incoraggiante, un’immagine che oggi direi “d’amore” e così sconfiggevo il mio nemico. Tremavo – certo – ma sapevo che quella immagine mi avrebbe salvato. Oggi porto dentro di me una storia, ovunque io vada. Ci sono periodi – anche lunghi, troppo lunghi! – in cui le giornate sono una sequela di adempimenti e sono cariche di umiliazioni e ci ricordano – tutte assieme – gli errori che abbiamo commesso nel passato, questioni che non si risolvono e dunque ritornano ingigantite in forme differenti. Queste giornate ci stremano, ma siamo ancora vivi e se siamo vivi allora abbiamo ancora la possibilità di lottare per uscirne fuori e non è detto che per salvarsi occorre soffrire all'infinito perché si rischia di cadere nella trappola dell’autocompatimento e del crogiolo. Anche il combattente più forte di tutti ha bisogno di un momento di raccoglimento. Deve prepararsi, riassorbirsi. Gli animali cercano un rifugio, si lamentano per qualche minuto fino a quando il battito cardiaco non riconquista il suo ritmo, poi cominciano a leccarsi le ferite e restano lì, piegati su sé stessi, per lunghi minuti. Così l’uomo ritrova sé stesso nel buio della propria stanza e nella solitudine della propria anima e dopo aver espulso lacrime e livore, si ritrova finalmente fermo, libero: può cominciare a massaggiare i propri muscoli a osservare le proprie ferite, perché sa che dovrà ricucirle se vuole proseguire. Scrivere significa portare dentro sé una storia, sempre, in ogni momento della giornata, anche quando si dorme: persino allora le immagini che pensiamo di voler rappresentare verranno a farci visita sotto la forma magica del sogno. Abbiamo questa storia – è nostra: solo nostra – e ce la portiamo dietro sotto la doccia, mentre viaggiamo, mentre siamo in una sala d’attesa o in fila, al supermercato. Ce la portiamo dentro le cellule: qualsiasi cosa ci accada è – in qualche maniera – riconducibile alla nostra storia ed è vero anche il contrario: qualunque cosa ci accada è possibile ricondurla alla storia che vogliamo raccontare. Si tratta di esplorare, di valutare se ciò che ci capita ha toccato una corda e ha suscitato emozioni che meritano uno spazio all’interno del nostro Romanzo – che paura fa questa parola... Questa permeabilità è molto frequente ed è la misura precisa dello stato di vitalità della nostra storia. Quando ero bambino mi proteggevo attraverso un’immagine, oggi mi difendo con una storia. Non è cambiato nulla direi: al bimbo la favola, all’adulto la realtà: si tratta comunque di finzione. I periodi difficili non sono mai troppo lunghi: ci stanno solo raccontando che siamo noi i colpevoli, che ci abbiamo messo troppo tempo per affrontarli e risolverli. Che siamo lenti, svogliati. La scrittura – dunque – è un ammortizzatore. Una lunga favola che ci raccontiamo prima di addormentarci, per non fare brutti sogni.

Il panorama degli scrittori dediti al NOIR si è arricchito di una penna eccellente!

Il Corriere della Sera - 21 Dicembre 2010

 

Joe Santangelo tocca le corde delle emozioni primordiali come la paura, l'angoscia e l'amore.

Leggere Tutti - Settembre 2011

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