(In His Own Write)
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MISS SARAJEVO - U2 & Pavarotti
(Tratto da "Four Sides" - 2013 - Caosfera Edizioni)
Quando ascoltai questa canzone per la prima volta provai una strana sensazione, come un rigurgito. Arrivò dalla radio, mentre stavo portando alcuni amici al mare, verso le spiagge del Salento. Era una domenica assolata, eravamo seminudi all’interno dell’auto e avevo difficoltà a governare la macchina perché i ragazzi – stufi di stare chiusi nell’abitacolo da ore – giocavano a lanciarsi oggetti e urlavano nella speranza di farmi innervosire. Giravano birre e marijuana, ma eravamo semplicemente ragazzi vivi in fuga dalla città. La radio mi propose questo pezzo e io ci riconobbi la voce di Bono Vox, il leader degli U2, perché inconfondibile e mi sforzai di comprendere i testi, peraltro molto semplici, ma senza riuscirci. Trovavo l’arrangiamento stranamente ripetitivo, troppo morbido per essere il nuovo pezzo di uno dei miei gruppi preferiti, all’epoca. Poi partì la voce di Luciano Pavarotti, forte, ruvida, troppo diversa dalla poesia commuovente di Bono. Mi sembrò che in quella combinazione di mostri sacri provenienti da universi paralleli, le voci fossero troppo stridenti, che non si amalgamassero. Immaginavo dell’olio aggiunto all’acqua e per quanto tentassi di agitare il contenuto di questa bottiglia, i due ingredienti non si prendevano. Stavo giudicando.
Dimenticai questa canzone perché seguì una giornata di meravigliosa leggerezza, ma sapevo che avrei dovuto affrontare la cosa e che avrei dovuto farlo quanto prima. Il lunedì successivo, alle sedici, ero davanti alla porta di New Record. Attesi che il mio amico Vito aprisse la serranda e mi fiondai dentro. Vidi immediatamente l’oggetto del mio desiderio. Si trattava di uno spin–off, un pezzo unico voluto da Bono su ispirazione di un impresario russo che aveva raggiunto Miss Sarajevo in Bosnia, ai tempi della guerra del Balcani per intervistarla, ma fu bloccato per sei mesi in terra bosniaca e dovette contribuire a mitigare gli effetti catastrofici di quella cosa idiota che è una guerra, dandosi da fare. Sulla copertina del mini–CD c’era l’immagine di questa ragazza. Una perla di circa diciassette anni, piena di vita e speranze, piena di sogni. L’esecuzione con Pavarotti fu estemporanea e prese luogo all’interno di un Festival promosso per combattere le barbarie subite dalle donne in quei tempi e in quei luoghi.
Quando lessi queste informazioni mi sentii in colpa, pensai di non meritare nemmeno l’ascolto, ne rimasi paralizzato. Tenevo il CD tra le mani, ma non avevo ancora deciso quando lo avrei ascoltato. Ricordai e maledissi quel giudizio espresso nei miei pensieri e mi pentii della stupidità – tutta giovanile – di prendere posizioni a caldo, sulla base dell’ignoranza o delle parti basse del corpo. Pagai e lasciai il negozio. Portai quel CD per tutta la sera nella tasca destra del giubbotto. Ogni tanto inserivo la mano dentro per assicurarmi che fosse ancora lì. Trascorsi la mia solita serata a perdere il mio tempo. Trascorsi un altro mucchio di ore a ridere, a bere, a dire stupidaggini. Ricordavo parole come “pregare”, “sperare”. Provenivano da un cassetto che non avevo chiuso e che voleva riaprirsi prepotentemente. Un cassetto che abita il mio cuore. Che razza di sistema: una canzone che ti mette davanti alla tua pochezza, alla grettezza, alla tua povertà. Che forza – pensai: questo dev’essere il significato di comporre musica o letteratura o qualsiasi altra cosa che tocchi il cuore di un altro uomo.
Raggiunsi casa e, ancora vestito, mi sistemai vicino al lettore CD. Poi chiusi gli occhi e restai ad ascoltare. Al primo ascolto riuscii a decifrare una serie di “she” (“lei”, probabilmente Miss Sarajevo) e ogni volta sentivo una fitta. Poi partì la voce di Luciano Pavarotti e mi accade qualcosa dentro, in profondità. Qualcosa si ruppe e cominciai a piangere, a piangere. Sentivo addosso tutta la sofferenza di quelle parole, come se qualcuno avesse voluto scriverle perché io – proprio io – potessi ascoltarle. Qualcosa di tremendo, una delle sensazioni più forti che avessi mai provato. Non tentai nemmeno di combatterla e riascoltai fino alla nausea. Le vibrazioni di quella voce colossale mi entravano dentro da ogni parte e io restavo fermo, in preda a quel tremore e piangevo come se avessi dieci anni. Mi scusai per aver offeso quelle ragazze. Non sapevo nemmeno quello che stavo dicendo e pensando, ma sentivo che se mi fossi scusato mi sarei sentito meglio. Meglio di quanto possa sentirsi un codardo, cioè un ragazzo italiano, un fortunato, uno che non ha mai dovuto confrontarsi con la fame, la paura, il dolore e la morte. Archiviai temporaneamente il CD perché esercitava un potere fortissimo anche da lontano. Sentivo quella canzone dentro la mia testa, ogni giorno, fino a dimenticarmene.
Quindici anni dopo a quel ragazzo si era sostituito un uomo, il padre di una meravigliosa bimba di otto anni, un essere umano carico di energia e voglia di vivere in cui abita uno spirito molto simile al mio. Tornavamo da Valmontone, dopo una giornata trascorsa al Rainbow Magic Land, il Luna Park del momento. Avevo visto mia figlia sorridere per dieci ore consecutive alternando alle giostre zucchero filato, gelati e pop–corn. All’uscita dell’autostrada decisi che le avrei fatto ascoltare una canzone speciale, una canzone che parlava di una ragazza, di una guerra, di amore e di dolore. Cercai la canzone e la canzone arrivò:
Dici che il fiume trova la via al mare
E come il fiume giungerai a me
Oltre i confini e le terre assetate
Dici che come il fiume, come il fiume…
L’amore giungerà…
L’amore…
E non so più pregare…
E nell’amore non so più sperare
E quell’amore non so più aspettare…
Cercavo di spiegare, mi sforzavo di contenere qualcosa che mi stava per arrivare alla gola, ma fallii come un miserabile e allora cominciai a piangere, in silenzio, senza singhiozzi, senza un motivo preciso. Mia figlia si voltò verso il finestrino, era paralizzata. Era la seconda volta in vita sua che mi vedeva in quello stato. Stava piangendo proprio come me, ferma, in silenzio e allora io le dissi che questa canzone aveva il potere di commuovermi, ma non riuscivo a fermare le mie lacrime. In quel momento capii di essere ancora il ragazzo di tanti anni prima, quello stesso, preciso ragazzo. L’accarezzai e ascoltammo un altro pezzo, una “canzone allegra”, come mi suggerì Eva. Poi tornai su quel punto.
«Questa canzone è importante Eva: esistono certe cose brutte nel mondo, non possiamo fare finta di nulla»
«Lo so»
«Ti piace quella canzone?»
«No»
«Perché non ti piace?»
«Perché ti fa piangere», mi disse, e io non tentai neanche di replicare.
Esistono emozioni che non ci lasceranno. Potremo portarcele avanti, nel futuro. Oppure potremmo pensare di averle dimenticate, ma quando qualcosa toccherà di nuovo la corda giusta, il nostro cuore ricomincerà a vibrare e quel suono si trasformerà in un’emozione: quella stessa emozione che abbiamo conosciuto in un’altra età. E questa non è una debolezza, ma piuttosto una ricchezza, perché ci ricorda chi siamo stati, ciò che abbiamo desiderato e ciò che abbiamo voluto. Perché l’uomo è una serratura, e la Musica è la chiave per aprirla.