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HIGH HOPEs

(Tratto da "Four Sides" - 2013 - Caosfera Edizioni)

 

La speranza è un valore che attrae la stragrande maggioranza del genere umano. È miele. A suo modo la natura ha dotato tutti gli esseri viventi di una ipersensibilità alla speranza. Ciascun essere vivente – si tratti di un organismo monocellulare, complesso, rettile o mammifero – è sovraordinato da una forza inesplicabile e finalizzato all’autoconservazione. La vita – in definitiva – “vuole sopravvivere”: il corpo vuole camminare perché deve trovare cibo, i polmoni vogliono respirare perché devono ossigenare il sangue, il cuore vuole battere, perché deve distribuire sangue, ossigeno e nutrimento alle fibre muscolari. Ogni sistema riposa sul contributo complementare delle altre funzioni, nessuna inutile, tutte necessarie. La natura ha già pensato a tutto questo e l’animale non se ne fa un cruccio: spinge istintivamente fino al limite che gli è consentito, anche se ci riesce difficile attribuire a questa attività il nome di “speranza”. All’animale in quanto tale non può essere attribuita una tale capacità e dunque l’uomo – per sua maggior tranquillità – gli ha attribuito il mero talento dell’adattamento, dell’autoconservazione, dell’istinto. In realtà le dinamiche “animali” non sono tanto dissimili da quelle umane, con la sola differenza che l’uomo ha concepito, nel linguaggio, la presunzione di edulcorare la sostanza attraverso la forma. Così riesce più decoroso parlare di “fede” o di “speranza” piuttosto che di “bisogno” o “stato di necessità”.

La vera questione è che l’uomo ha rivoluzionato i termini attraverso il linguaggio e poi ha complicato seriamente il quadro d’insieme inserendoci le sfumature, gli eufemismi, i sinonimi, le immagini. Ha costruito un mondo “illusorio” e lo ha consegnato al linguaggio: gli ha dato le chiavi della città e gli ha detto “Ecco, adesso prendi tu il comando!”. Se spogliassimo il comportamento delle parole (il linguaggio: le immagini, i simboli, le complicazioni) ci accorgeremmo che non è la presenza della speranza a sorprenderci, bensì il suo esatto opposto: la disperazione. La speranza è un talento intrinseco, ci viene donato da madre natura gratuitamente ed è connessa con l’istinto di autoprotezione che discende dallo spirito di autoconservazione: è una sua declinazione, serve per costringerci a essere vivi, a trovare una via d’uscita, proprio come farebbe un qualunque animale – se proprio vogliamo classificare le specie – ove si trovasse in difficoltà. Eppure la speranza sembrerebbe un bene raro, oggi: tutte le diverse religioni se ne fanno carico e ci costruiscono attorno crismi e dogmi e noi consolidiamo la convinzione di doverci applicare, per conservarla viva (nella preghiera – tipicamente – è insita la speranza: la promessa di una dimensione ulteriore e ultraterrena è di per se stessa fondamento di una speranza). Le religioni ci rivendono un bene già nostro dopo averlo confezionato a dovere. Noi paghiamo il prezzo più alto: abdichiamo alla nostra libertà esonerandoci nella responsabilità.

E allora: cosa ci è accaduto? Perché sperare è diventata un’attività così virtuosa nell’immaginario delle persone comuni? Quale corda sensibile tocca, del nostro apparato, tale da distoglierci dalle attività comuni e costringerci alla migliore serietà di cui siamo capaci? Cosa ci distingue dai nostri cugini animali che agiscono indistintamente, nell’ordinaria e nella straordinaria amministrazione? Cosa, nella buona e nella cattiva sorte? L’uomo, l’uomo: sempre lui! Non sopporta di adeguarsi allo svolgersi naturale degli eventi. Non si rassegna alle regole, ma piuttosto desidera. Non accetta di conformarsi allo stato di necessità, ma piuttosto immagina obiettivi da perseguire e poi s’industria per conseguirli: s’impegna, lotta con tutte le sue forze fino allo stremo e poi si raccoglie su se stesso con le mani giunte, solleva il mento e resta a guardare. Davanti a lui c’è il cielo e oltre ciò che gli riesce di immaginare vola alta la speranza. C’è un passo importante che contraddistingue l’essere umano e lo separa definitivamente dall’animale. L’uomo si sforza di “trasformare il mondo” anziché seguirne le sorti.

Non occorre in questa sede affondare il colpo: si potrebbe replicare che il figlio non può trasformare il proprio padre: quest’ultimo può lasciarsi “solleticare” per concedere l’illusione di un potere, ma si tratta solo di un palliativo. Ciò che è interessante è il ruolo della speranza: essa scaturisce quasi automaticamente quando l’operazione di trasformazione è particolarmente complessa e richiede un impegno e un sacrificio che potrebbero essere insufficienti, perché occorre il consenso di un terzo soggetto o perché la riuscita è subordinata a eventi sui quali l’uomo – più o meno consapevolmente – non ha controllo. Allora si comincia a sperare, ovvero ad augurarsi quasi fideisticamente che il fato (o il caso) ordisca la sua tela nel modo più congeniale al nostro progetto. Ci troviamo nella condizione della cattiva sorte. Nel mosaico della nostra esistenza è arrivato un tassello di colore nero:

 

The grass was greener – The taste was sweeter – With friends surrounded

Il prato era più verde – Il sapore era più dolce – Circondato da amici

(High Hopes – Pink Floyd – 1994)

 

I go down to the River, though I know the River is dry…

Raggiungo comunque il Fiume, anche se so che il fiume – oramai – è asciutto…

(The River – Bruce Springsteen – 1980)

 

Speriamo anche l’impossibile, speriamo anche ciò che è illogico, improbabile. Speriamo l’insperabile. C’è un elemento che manda in frantumi la nostra coscienza, un aspetto duro, feroce e inaccettabile. Gli esseri umani conoscono il mondo attraverso i cinque sensi, ha “esperienza” del mondo – e della vita, ancora prima – attraverso l’azione congiunta dei cinque sensi. Osserva, ascolta, odora, assapora, tocca, e dunque il “sistema–uomo” trae le proprie conclusioni sul mondo, ci mette sopra un giudizio e comincia a vantare aspettative. Nel concetto stesso di “desiderio”, e ancora più chiaramente di “aspettativa”, c’è un altro elemento impossibile da cogliere attraverso il combinato dei nostri cinque sensi. Questo oggetto è il vero padrone del mondo: il Tempo. Se la terra non fosse impegnata in un doppio moto (rotazione/rivoluzione), l’uomo stesso non avrebbe la percezione del tempo, perché sarebbe sempre giorno o sarebbe sempre notte. Ma se così fosse, allora non sarebbero esaudite le condizioni necessarie e sufficienti a permettere la vita, e pertanto non potremmo nemmeno parlarne (calore/atmosfera/acqua).

Dunque all’uomo che conosce il mondo, “sfugge” l’elemento–tempo: a questo viene attribuito il carattere di “alterità”, nel senso che il tempo diventa “altro” rispetto all’essere umano, un elemento condizionante, un parametro più o meno pronosticabile, ma non controllabile (possiamo “misurare” il mondo, ma non possiamo pronosticare “cosa” ci accadrà nel futuro). L’uomo – in conclusione – ritiene che il mondo sia un oggetto tridimensionale (lunghezza, larghezza, altezza) che si trasforma nel tempo. È qui che fa il suo ingresso la frattura che ho anticipato: l’Universo – all’interno del quale c’è questo granello di polvere cosmica che chiamiamo “mondo” – è un oggetto “multidimensionale”, ovvero un organismo vivo, dinamico che non “sente” il tempo come noi lo sentiamo (Teoria del Multiverso). Il tempo è semplicemente una delle dimensioni dell’Universo. Il prato di cui canta David Gilmour (High Hopes) non è verde, non rinsecchisce, non cambia colore. Il prato è “tutto questo” contemporaneamente, è tutti i suoi stati, anche se l’uomo – costretto dalla sua limitatezza – riesce a vederne i singoli stati. Secondo questa prospettiva il fiume di cui canta Bruce Springsteen (The River) non è in piena e non in secca. Il fiume è “tutto questo” contemporaneamente, è tutti i suoi stati, anche se l’uomo riesce ad apprezzare le differenze e a preferire un letto ricolmo di acqua piuttosto che un canale arido, secco e sassoso. Anche questo giudizio è frutto di un criterio che rimanda all’istinto di conservazione: l’acqua – come la pianta rigogliosa – rimanda all’idea della vita e l’uomo “vuole vivere”.

Il Cosmo non concepisce il tempo: noi uomini lo facciamo e il fatto stesso di farne oggetto di riflessione – la necessità di definirlo, banalmente – è la fonte della nostra paura primordiale, perché l’esistenza del tempo certifica una verità ineluttabile: un giorno dovremo morire. Il tempo – in definitiva – produce la paura della morte dalla quale discendono tutte le altre. Vanità, gelosia, accidia, incoscienza, odio, dolore e ogni altra manifestazione negativa dell’animo umano, sono declinazioni diverse della paura di morire. L’uomo “spera” perché esiste il tempo. Eppure è proprio la consapevolezza della precarietà della condizione umana che imprime una sferzata. I latini ammonivano che “Carpe diem, quia irreparabile tempus fugit” (Cogli l’attimo, perché il tempo fugge irreparabilmente). L’unica possibilità è “vivere” e se in questa sfida la speranza aiuta, allora che speranza sia. È ciò che ho trovato dentro queste tre canzoni.

 

Dream on, dream until your dream come through…

Sogna, continua a sognare fino a quando il tuo sogno non si realizzerà…

(Dream On – Aerosmith – 1973)

 

Quello che altri chiamano “speranza”, io chiamo lotta. Quelli che altri chiamano “lotta”, io chiamo vita.

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